venerdì 4 gennaio 2013

ESECUZIONE PENALE: a colloquio con Giovanna Di Rosa

L'esecuzione penale non è normalmente compresa nel curriculum degli esami universitari che gli studenti della facoltà di giurisprudenza debbono obbligatoriamente sostenere per conseguire la laurea. Eppure la materia è straordinariamente attuale: dal digiuno di Marco Pannella alla recente notizia del Ministro della Giustizia che prende atto con amarezza dell'impossibilità di approvare il ddl sulle pene alternative, c.d. svuota carceri, fino all'ultimo cenno del Presidente Napolitano durante il discorso di fine anno, apprendiamo quotidianamente delle difficili condizioni dei condannati, i c.d. definitivi, soprattutto quelli che scontano la loro pena in carcere.

Ne parliamo con Giovanna Di Rosa, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di sorveglianza di Milano, attualmente in carica presso il C.S.M., componente della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza che ha predisposto una relazione - presentata lo scorso novembre al salone della giustizia di Roma - in cui sono raccolte proposte di intervento per affrontare il sovraffollamento e le difficili condizioni di vita all'interno delle strutture penitenziarie, spesso di gravità tale da integrare violazioni dei diritti fondamentali della persona, in palese contrasto con i dettami della nostra Carta costituzionale. Per il suo ruolo, assolto con competenza, passione, limpida dedizione e convinzione, l'Associazione dei Carducciani, che raccoglie gli ex allievi del Liceo Classico Giosuè Carducci di Milano presso il quale Giovanna Di Rosa ha conseguito la maturità classica nel 1979, l'ha premiata quale Carducciana dell'anno 2012.


La figura del magistrato di sorveglianza non è comunemente conosciuta. D'altra parte, la sorveglianza sull'esecuzione della pena è stata giurisdizionalizzata soltanto con la riforma penitenziaria del 1975 ché in precedenza era questione prettamente amministrativa. Ci vuole descrivere il compito del magistrato di sorveglianza e la competenza del tribunale di sorveglianza?

Il magistrato di sorveglianza ha vari compiti previsti dalla legge: concede i c.d. benefici penitenziari (permessi premio e misure alternative al carcere), la liberazione anticipata; dà il proprio parere sulle grazie; decide sull'eventuale differimento dell'esecuzione della pena (ad esempio, per ragioni di salute), sulle misure di sicurezza, compiendo il riesame della pericolosità sociale dopo l'espiazione della pena detentiva o il decorso del tempo minimo stabilito per la misura di sicurezza, sulla riabilitazione; sulla remissione del debito; sulla rateizzazione delle pene pecuniarie; monitora inoltre l'esecuzione delle misure alternative e delle misure di sicurezza potendo, in caso di violazioni importanti o di commissioni di reati, adottare provvedimenti che modificano il regime attuale o sospendere (con arresto immediato) la misura in corso; approva il programma di trattamento (cioè il percorso che l'amministrazione carceraria suggerisce per il detenuto), ovvero lo restituisce con rilievi, se ravvisa violazione dei diritti, e autorizza il programma di ammissione al lavoro esterno.
Il magistrato di sorveglianza ha poi un dovere di vigilanza sull'organizzazione delle carceri e sulla relativa legalità. Per assolvere questo compito, può prospettare al Ministro le esigenze rilevate "con particolare attenzione al trattamento educativo", come prescrive l'art. 69 comma 1 della L. n. 354/1975 contenente l'Ordinamento Penitenziario e può anche decidere sul reclamo proposto dai detenuti per la tutela dei loro diritti.
Il tribunale di sorveglianza - che è composto da 4 persone, di cui due sono giudici togati e due sono esperti in criminologia, antropologia, discipline mediche, ecc. - decide su talune misure alternative più ampie, quali l'affidamento e la semilibertà, ed è competente, come giudice di secondo grado, sui reclami contro i provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza, a seguito di ricorso dell'interessato o del pubblico ministero.

E' vero che spesso i difensori non si occupano della fase esecutiva, quasi che, terminato il processo ed esauriti i gradi di giudizio, non vi sia più nulla da fare per il proprio assistito?

E' senz'altro vero che i difensori d'ufficio non seguono i loro assistiti nella fase esecutiva. E' un discorso che vale per i detenuti non abbienti, perché il difensore di fiducia segue di norma la fase dell'esecuzione e spesso riesce a evitare, mediante la proposizione di apposite istanze, l'ingresso del condannato in carcere.

L'Ordine degli Avvocati di Milano ha predisposto un servizio di consulenza legale per i detenuti presso gli istituti penitenziari di San Vittore, Opera e Bollate, specialmente dedicato a quelli con condanna breve, privi di difensore di fiducia e indigenti. Per quanto ci consta è un'iniziativa unica e risulta che lei, dottoressa Di Rosa, ne sia stata convinta promotrice. Ce ne vuole parlare?

Nel corso di colloqui con i detenuti non abbienti, privi di difensore di fiducia, mi sono accorta che le posizioni giuridiche di alcuni condannati, tra cui tanti stranieri, avrebbero potuto essere migliorate, cioè i detenuti avrebbero potuto avere, di diritto, un fine pena più breve, se fosse stata seguita con cura la loro vicenda.
L'entità della condanna può infatti cambiare nel tempo perché possono intervenire molti fattori a beneficio del condannato, quali la liberazione anticipata (cioè lo sconto di pena ottenibile ogni sei mesi di detenzione se il condannato ha tenuto condotta regolare), il riconoscimento della continuazione tra i vari reati, la fungibilità di carcerazioni pregresse e non seguite da condanne (c.d. presofferto), e via dicendo. 
Il magistrato di sorveglianza può, entro certi limiti, intervenire, ma ha bisogno dell'istanza o dell'interessato o del suo difensore. In un primo tempo, in mancanza di quest'ultimo, ho qualificato istanze le dichiarazioni che raccoglievo dai detenuti con i quali avevo colloquio, ma non era una soluzione generalizzata e, fra altro, nemmeno condivisa da tutti i colleghi.
Ho pensato allora che si potesse trovare rimedio con un intervento di generosità dell'Ordine degli Avvocati, cui mi sono rivolta chiedendo la disponibilità di avvocati qualificati, su base esclusivamente volontaria.  Insieme, abbiamo così creato la figura degli avvocati che operano gratuitamente e con l'impegno di non ricevere alcunché da alcuno per l'assistenza prestata ai detenuti non abbienti; ciò, tenuto conto dell'impossibilità di trasformare l'intervento volontario in un intervento d'ufficio e per non incorrere, da parte dei volontari, nel divieto di c.d. accaparramento di clientela. 
L'iniziativa si è poi evoluta perché, insieme pure al presidente della corte di appello e all'amministrazione penitenziaria, abbiamo organizzato corsi qualificati in materia e turni di disponibilità giornalieri predisposti dall'Ordine
I difensori di turno possono così recarsi nelle carceri del distretto di Milano dove incontrano i detenuti - con determinati requisiti di reddito - che ne hanno fatto preventiva richiesta. 

Secondo la sua esperienza presso il tribunale di sorveglianza di Milano, quanto contano le modalità di esecuzione della pena sul processo di recupero di un condannato alla società?

Secondo la mia personale esperienza sono determinanti. 
Posso riferire di tante situazioni in cui l'avvio di un percorso di reinserimento sul territorio, cioè di reimmissione di una persona nel circuito sociale, è stato decisivo per un esito felice: questa persona si è reimpadronita di se stessa, delle propria gestione e autodeterminazione anche in un contesto lavorativo,  capace di comportarsi e rapportarsi con senso di responsabilità nelle relazioni familiari e sociali. 
Lo posso dire in relazione a casi specifici di detenuti che, partendo dal permesso premio e dall'ammissione al lavoro esterno, sono passati alla condizione di semiliberi e di affidati, hanno avuto (o no) un tempo di libertà vigilata e si sono inseriti, senza più ricadute di rilevanza penale.
Autorizzare questi percorsi con i propri provvedimenti, anche correttivi, e poi assistervi vigilando e dando fiducia è un'esperienza certo rischiosa, ma forte e importante. Capisco bene che questa mia esperienza ravvicinata mi consente di avere la prova scientifica dell'esattezza di questi percorsi, cosa che, forse, per chi non fa il mio lavoro è più difficile da comprendere.
L'esperienza è tanto più forte con lunghe carcerazioni, dunque per reati più gravi, perché la scommessa sulla tenuta della persona è più impegnativa.
Le statistiche confermano quanto ho detto prima: se vengono concesse misure alternative, la recidiva è del 19%, se non vengono concesse, sale all' 80%.

Quanto è importante per un condannato poter svolgere attività lavorativa? quali e quante sono le possibilità per un condannato di lavorare all'interno e fuori dal carcere? E' vero, dottoressa Di Rosa, che ha avuto l'idea di far cucire le toghe in carcere? Ed è così che è nata la cooperativa Alice?

Svolgere attività lavorativa retribuita è determinante perché permette al condannato di contribuire al mantenimento proprio e della famiglia. Ciò consente un riscatto e riconsegna all'uomo condannato il valore del far parte di un processo produttivo, lo fa sentire più utile e lo motiva a credere in se stesso. Offrire inoltre un modello di comportamento secondo regola conduce, talvolta, a sperimentare un modo di vita diverso e magari mai tentato, che invoglia al cambiamento e comunque alla ricerca di una condotta regolare, anche perché si sono già conosciuti i meccanismi della devianza e le conseguenze di scelte sbagliate.
Le possibilità concrete di trovare un lavoro dentro e fuori dal carcere sono molto poche per una serie di motivi: dentro, la difficoltà più grande è la mancanza di spazi e fuori, ancor di più, perché i detenuti o gli ex detenuti non costituiscono ex se personale richiesto.  Spesso, soprattutto gli extracomunitari, non hanno una professionalità specifica. Inoltre, di recente i tagli agli incentivi fiscali che erano previsti per favorire l'assunzione di detenuti ed ex detenuti presso le aziende (c.d. Legge Smuraglia) hanno portato un  colpo mortale al mercato del lavoro per tali persone.
Sì, ho pensato di far confezionare le toghe in carcere, l'idea mi è venuta mentre accompagnavo una ventina di giovani magistrati in tirocinio a visitare il carcere di San Vittore. Stavamo visitando il laboratorio della Cooperativa Alice, che si trova al suo interno e che già esisteva, occupandosi di abbigliamento, e per i giovani magistrati si avvicinava il momento di dover comprare la toga.
Ho chiesto all'amministrazione penitenziaria la fattibilità di questo progetto, studiando il senso del percorso trattamentale, che non è affatto del contrappasso, ma è un percorso simbolico di ricucitura con la società proprio attraverso un oggetto di giustizia, quale è la toga. 
Ho preso contatti con la responsabile della cooperativa e ho prestato la mia toga come modello, perché non l' avevano. 
Con la diffusione del piano fra gli organi istituzionali preposti al tirocinio, l'Associazione Nazionale Magistrati e l'Ordine degli Avvocati di Milano, l'iniziativa è diventata più forte. 
Ora sto cercando di creare una forma di collaborazione con colleghi di altri paesi europei. 
L'ordine si può fare anche via internet e dunque non vi sono limiti spazio-temporali. Attualmente i laboratori che vi lavorano sono due, uno presso il carcere di San Vittore e l'altro alla sezione femminile di Bollate, oltre a un laboratorio esterno. La cooperativa ha poi anche un negozio in Milano.

Un discorso a parte merita la condizione delle detenute madri. A Milano è stato recentemente istituito l'ICAM (Istituto Custodia Attenuata Madri), ci vuole parlare di questo esperimento?

L'esperimento dell'ICAM a Milano ha significato cercare di creare una struttura che, dovendo ospitare madri con bambini entro i tre anni di età, assomigliasse il meno possibile a un carcere.
Così, all'interno di uno stabile collocato in un palazzo della provincia, in una zona centrale di Milano, di fronte all'Ospedale della maternità Melloni (cui è collegato tramite un tunnel), è stata creata questa struttura, che nasconde, con una serie di accorgimenti, gli aspetti propri della detenzione: le sbarre sono state occultate da tendine, i colori usati per le pareti sono giallo e rosa, l'arredo prescelto è di tipo etnico, dunque più leggero, sono state predisposte porte a vetri anziché blindi con spioncini, e cosi via. 
Il contenuto del progetto pedagogico per le mamme ha previsto percorsi di reinserimento tali da favorire il rapporto madre-figlio rispettando il bambino. Ai bambini è possibile frequentare l'asilo nido comunale e si sono previsti spazi per assicurare alla madre di passare qualche ora in un luogo meno austero con gli altri bambini in visita. 
Il regolamento di questo istituto è stato il primo in Italia per il settore femminile e contiene innovazioni profonde sulle regole di vita, nel senso di promuovere l'autonomia della donna e della madre e la valorizzazione del rapporto con il figlio. Presiedendo la commissione che lo ha approvato, ho cercato di farvi partecipare tutte le figure coinvolte, alla ricerca di un nuovo percorso, condiviso con gli attori di riferimento, in anticipazione della normativa.
L'esperienza è stata portata in Europa, nell'ambito del progetto Criminal Justice promosso dalla Comunità Europea. 
Illustrando questo progetto all'estero, ho visitato tante strutture detentive e posso assicurare che nessuna aveva il contenuto pedagogico e gli accorgimenti dell'ICAM, dove la scommessa, forte, è quella di lasciare alle madri il maggior spazio e tempo possibile per gestire la casa-carcere e accudire i propri bambini. 
Attualmente nessun'altra struttura è così. Eppure è indispensabile assicurare che i bambini non crescano in nidi, anche apparentemente gradevoli, all'interno delle carceri. E' scientificamente dimostrato  che l'esempio di istituzionalizzazione assorbito nei primi anni di vita attraverso le relazioni che la propria madre ha con la polizia penitenziaria che ne gestisce l'autonomia sia destinato a riflettersi per sempre nei rapporti con le istituzioni. Per quei bambini, infatti, questi rapporti saranno sempre conflittuali e di contrapposizione.

Un' ultima domanda, dottoressa Di Rosa, ma forse è quella per la quale abbiamo pensato di svolgere questo colloquio con lei: perché vale la pena prestare attenzione alla condizione dei detenuti?

Vale la pena prestarvi attenzione perché, così facendo, si investe sulla parte buona delle persone per ricavarne uomini migliori  rispetto a quelli che altrimenti uscirebbero. Il carcere, come è noto, è uno dei fattori criminogeni e le società che non si occupano della situazione detentiva producono persone che, una volta scarcerate, sono più violente e inclini a delinquere.
Inoltre, direi che è nostro dovere prestare attenzione alla condizione dei detenuti perché il carcere è lo specchio della società libera e ospita, per lo più, persone meno favorite dalle condizioni di vita che per accidente sono loro toccate. 
Quanti di coloro che sono in carcere oggi hanno scelto realmente di delinquere e non vi sono stati costretti dalla contingenza? E quanti di coloro che stanno fuori non tengono comportamenti che, solo perché non scoperti, non hanno una sorte diversa? Tanti, davvero tanti. Ecco perché dobbiamo occuparcene.

Ma alla fine, dottoressa Di Rosa, che luogo è il carcere?

In carcere, a differenza che nella società esterna, ciascuno è esattamente quello che è, senza finzioni. Questo ne fa un luogo di sincerità. Ma quanti sono disposti a condividere questo pensiero?
E infine: basta parole. So che è un tema che dà visibilità politica, e quindi a molti piace parlarne, ma è anche un tema che merita  rispetto, perché si parla, e si decide, della libertà personale. Per questo 2013, allora, direi: solo fatti.



1 commento:

  1. Riprendendo il filo della lunga intervista rilasciata a PalaGius, all'indomani dell'ultimatum all'Italia della Corte di Strasburgo per le condizioni dei detenuti, Giovanna Di Rosa ha scritto una lettera al Corriere della Sera che l'ha pubblicata con il titolo "Troppe parole pochissimi fondi".
    Per leggerla, seguite il link http://archiviostorico.corriere.it/2013/gennaio/09/Troppe_parole_pochissimi_fondi__co_0_20130109_9f479444-5a25-11e2-bed6-94e1fc6e3a92.shtml

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